Secursat, il futuro della sicurezza è un modello aziendale flessibile, tecnologico, inclusivo e sostenibile
Intervista a Giuseppe Calabrese, Chief Executive Officer di Secursat
Terrorismo internazionale, cybersecurity e pandemia sono minacce che, pur manifestandosi in modo autonomo, hanno in realtà interagito negli ultimi anni nel costringere governi, organizzazioni e singoli cittadini a considerare la sicurezza, in senso lato, come una componente essenziale della normalità, proprio nel momento in cui gli opinion maker più evoluti del settore ritengono necessario superare i confini della specializzazione per farla diventare una “commodity” globale. Qual è la sua valutazione in merito?
Il rapido modificarsi degli scenari in cui ci muoviamo e la loro complessità rendono difficile elaborare considerazioni definitive, in quanto i cambiamenti sono ormai più veloci della nostra narrazione. Certamente, la sicurezza non è un processo lineare ma, piuttosto, un processo diffuso e ben si potrebbero prestare gli uomini e le aziende della security a gestire queste complessità. Tuttavia, quando oggi si parla di sicurezza, si pensa ancora a un mondo chiuso e obsoleto, forse perché spesso è gestita da “esperti” che si definiscono tali e, solitamente, viene comunicata male, in particolare attraverso un improvvisato utilizzo dei nuovi media. Se ne parla tanto utilizzando indicatori autoreferenziali e allarmistici, declinandola attraverso perimetri, confini e territori ridefiniti a piacimento e, talvolta, erigendo anche arbitrari “muri”professionali.
Occorre, innanzitutto, rovesciare un approccio statico, stagnante, privo di visione, di prospettiva e di armonia che continua a condizionare le scelte, ignorando che ci troviamo ormai in un labirinto senza confini dove tutto scorre velocemente. Tutti i luoghi sono punti esplorabili Secursat, il futuro della sicurezza è un modello aziendale flessibile, tecnologico, inclusivo e sostenibile intervista a Giuseppe Calabrese, Chief Executive Officer di Secursat a cura di Raffaello Juvara con il semplice movimento di un pollice e di un indice, fino a rivelare qualsiasi isola e cogliere il fermo immagine di chi vi è approdato. Gli spazi fisici e virtuali s’intersecano fino quasi ad annullare i reciproci perimetri di competenza. Per interpretare le minacce occorre, dunque, superare i confini definiti da player e manager tradizionali così come da ruoli obsoleti nelle organizzazioni, attraverso un confronto tra generazioni anche trasformando il linguaggio. E’ necessario inserire nuove risorse rivedendo gli scenari competitivi per entrare in una logica di libero mercato e libera concorrenza, con nuove modalità di qualificazione e di selezione per dare spazio a nuove opportunità ed a nuove visioni. L’approccio tradizionale sui fenomeni da lei citati è in ritardo, si tratta di manifestazioni sì autonome, ma con analoghe conseguenze: la mutazione degli scenari di rischio.
Occorrono visioni chiare, gestioni determinate ed indirizzi politici autorevoli da parte delle organizzazioni pubbliche e private perché la gestione del rischio non può essere una componente della normalità, o sempre un emergenza, se in tal senso s’intende una passiva accettazione di quello che verrà, non c’è normalità nei milioni di morti per pandemia se non controllata ne gestita, in milioni di attacchi cyber al giorno. La “commodity” è la tecnologia, non la competenza o la professionalità: la vera sfida è nella capacità di utilizzare la tecnologia per comprendere e mitigare rischi e minacce in un contesto ormai digitalizzato. La gestione del rischio deve fare i conti con l’assenza di confini e, allo stesso tempo, con la necessità di definire limiti; occorre proteggere senza limitare, garantire standard elevati senza imbrigliare gli spazi e modificare gli scenari, essere flessibili senza porre rigidi confini. Le tecnologie devono essere aperte all’integrazione ed alla gestione remota e devono essere orientate alla raccolta ed all’integrazione di dati; nello stesso tempo, si deve lavorare con adeguate competenze nella progettazione di infrastrutture di rete. Di conseguenza, il termine “specializzazione” mi sembra ormai riduttivo per definire una funzione fondamentale nell’organizzazione della vita in comunità. Per essere sicuri, dobbiamo rinunciare molto spesso a spazi di libertà individuale per conquistarne di libertà collettiva e la sola specializzazione non basta più quando servono, invece, professionalità, competenza manageriale, autorevolezza, reputazione sociale. Occorre pertanto cambiare i parametri di selezione delle persone, delle competenze e delle aziende per costruire modelli rispondenti ai nuovi bisogni ed ai nuovi scenari che si prospettano ogni giorno.
Di fronte a questo scenario, come si presenta la filiera nazionale della sicurezza rispetto agli altri paesi?
La filiera tradizionale della sicurezza nazionale attraversa, a mio avviso, un momento di massima difficoltà. L’illusione di fare finanza con attività “labour intensive”, abbandonando il presidio del mercato derivante da formazione, competenza e professionalità, ha favorito qualche imprenditore storico ma sono state e saranno tutte aggregazioni prive di valore aggiunto, dove le stesse sinergie attese non hanno consentito di raggiungere i risultati economico-finanziari annunciati. Non esistono dati strutturati di un settore dove prevalgono sistemi sommersi fatti di cooperative, vere e proprie filiere nelle stesse organizzazioni leader. Un settore che non è riuscito a delineare una politica dei prezzi provocando la corsa al ribasso, con tentativi di uscirne cercando business “pseudo-tecnologici” e danneggiando in questo modo anche altri segmenti, sia in qualità che quantità.
Viene così favorito l’ingresso di player della consulenza che hanno iniziato a presidiare gli spazi basati sulla qualificazione dei servizi e delle aziende lasciati liberi dalle strategie rinunciatarie altrui. I manager del settore non sempre sono aperti all’innovazione e preferiscono gestire piccoli eserciti anziché modelli innovativi e soluzioni orientate alla sostenibilità e alla digitalizzazione replicando servizi stantii, con il risultato di danneggiare il proprio ruolo nelle organizzazioni assieme a quello dell’intera filiera. Senza andare troppo lontano, in Europa gli esempi virtuosi sono tracciati dai player che sostengono una complessiva e costante riqualificazione del business attraverso una graduale modifica architetturale, con progetti pluriennali e visioni strategiche sui territori che indicano la strada del cambiamento. L’assenza di multinazionali della sicurezza nel nostro mercato è, da sola, un significativo segnale delle difficoltà di crescita qualitativa e di qualificazione. Frammentazione, territorialità ed ambigue istanze nazionalistiche sui prodotti contribuiscono ad annullare ogni accelerazione qualitativa. Chiaramente, ci sono significative eccezioni ed eccellenze innovative ma, al momento, non fanno il mercato.
Quale modello interpreta Secursat e quale ruolo si è ritagliata finora nel panorama generale?
Il progetto imprenditoriale di Secursat affronta queste dispersioni di visione e presidia i “non spazi”, proponendo strategie e soluzioni tecnologiche per garantire elevati standard di sicurezza per la tutela dei beni, dei dati, delle persone e dei nuovi limiti nel cui ambito essi si muovono, ma avendo come guida il rispetto delle regole e l’etica della responsabilità. Gestiamo rischi partendo dalla consulenza organizzativa, proteggiamo e monitoriamo luoghi attraversati tutti i giorni da noi e dai nostri figli (banche, centri commerciali, luoghi di lavoro, stadi, aree produttive) e ne sentiamo la responsabilità e il valore, proponendoci con un approccio flessibile ed innovativo anche attraverso l’analisi dei dati e delle informazioni sui comportamenti per migliorare la qualità degli spazi, mai per limitarli ma solo per proteggerli meglio ed anticipare i rischi. Organizziamo e monitoriamo la sicurezza di oltre 5.000 luoghi, garantendo ogni giorno la tutela e la protezione di più di 40.000 persone tra operatori ed addetti ai lavori e più di 1.000.000 di visitatori.
Quali sono i punti chiave della vostra proposta oggi e quali saranno domani?
I risultati raggiunti hanno costituito le basi per strategie di sviluppo futuro basate su investimenti volti alla progettazione, alla digitalizzazione ed all’innovazione dei tradizionali strumenti di gestione del rischio e dei modelli di servizio. In scenari interconnessi che cambiano nelle opportunità e nei vincoli, vengono richieste alle aziende, a tutti i livelli manageriali, scelte sempre più rapide basate sulla solidità e la certezza dei numeri, sulla capacità di reazione agli stimoli esterni ed approcci al lavoro sempre più basati sul valore delle persone, sull’importanza di network solidi, sullo sviluppo tecnologico e sulla capacità di interpretare ed analizzare dati ed informazioni. Ci siamo immaginati un progetto imprenditoriale con una strada lunga e fertile di avventure ed esperienze senza affrettare i tempi nè cercare successi immediati, ma ripensando un modello diventato ormai obsoleto da innovare secondo principi di business etico, compatibile con i nuovi e diversi bisogni di sicurezza ed in linea con i nuovi scenari globali, dove anche la capacità di comunicare diventa strategica perché fa parte integrante della sicurezza. In una visione più ampia e istituzionale, la sicurezza, per essere efficace, deve pervenire alla collettività in modo chiaro e diffusivo e deve essere compresa e percepita grazie ad una comunicazione priva di ambiguità.
Ritiene, in conclusione, che si continuerà anche in futuro a parlare di un “mercato della sicurezza” o saranno altri i criteri di definizione?
Dobbiamo crederci come manager e imprenditori, senza spostare la responsabilità altrove: il mercato si costruisce sempre tra domanda e offerta e solo la capacità di proporre innovazione può modificare i bisogni ed aprire la strada a nuovi modelli imprenditoriali e gestionali, a nuovi prodotti e nuovi servizi. Non è più epoca di quantità in questo settore, le aziende dovranno essere flessibili, tecnologiche, inclusive, sostenibili e di tutto ciò non vedo segnali significativi. Per questo motivo, immaginiamo una frattura tra quanto è labour intensive e quantitativo ed un nuovo scenario (o un nuovo criterio di definizione) di “Security Consultancy & Digital Companies”, in cui vorremmo collocarci come ascoltati player. E’ questa adesso la nostra ambizione.